BLUE di Carola Gatta, una mostra fotografica che dimostra che l’arte è sempre analogica, anche quando sono usate le tecnologie digitali.

La mostra fotografica BLUE, di Carola Gatta, in programma nella suggestiva Libreria Fahrenheit 451 a Piazza Campo de’ Fiori a Roma, dal 9 al 29 settembre 2017 (inaugurazione sabato 9 alle ore 18), è per noi particolarmente interessante perché dimostra in modo magistrale uno dei nostri argomenti di discussione preferiti, ovvero il fatto che le tecnologia digitali non sono antitetiche all’arte, ma anzi possono costituire un ulteriore strumento nella bottega, virtuale o reale, dell’artista e dell’artigiano.

Per onestà dobbiamo premettere che il nostro giudizio potrebbe essere un pochino di parte, vuoi per l’affetto che ci lega alla bravissima Carola, autrice e soprattutto esecutrice delle opere in mostra, e per il fatto che l’allestimento e le lavorazioni tecniche sono state effettuate nei nostri laboratori, ma proprio per questo, abbiamo avuto l’opportunità di osservare in prima persona l’intero processo di cui parliamo in questo articolo, e comunque, il risultato finale, dal 9 settembre potrete vederlo con i vostri occhi lungo le pareti di quel piccolo gioiello che è la Libreria Fahrenheit 451 al civico 44 di Campo de’ Fiori.

Partiamo proprio dall’origine delle opere: gli “scatti”, la materia grezza di ogni fotografia d’autore.

Quanto conta la qualità della macchina fotografica rispetto alla mano e alla visione del fotografo?

E’ già questa una domanda su cui si discute e si litiga spesso.

Carola, come ogni fotografo professionale, normalmente scatta con macchine e obiettivi di alta gamma, ma questa volta il discorso è stato diverso.

Per comprenderlo, occorre parlare della genesi del progetto BLUE. L’idea nasce in mezzo al mare, un bellissimo mare, il mare di una delle Isole più belle del mondo, l’Isola di Ponza, nelle cui acque Carola si trovava in un giorno imprecisato dell’estate 2016.

Quell’estate come sempre sulla barca c’era una macchina fotografica, in realtà c’erano varie macchine fotografiche come spesso accade quando nei paraggi c’è una fotografa in vacanza, ma questa nello specifico era stata portata dal figlio più piccolo di Carola, era una macchinetta fatta per stare nelle mani di un bambino che da grande vuole fare l’esploratore. Niente di professionale e particolarmente costoso, semplicemente una Nikon AW 130, un divertente prodottino consumer dalle prestazioni di ripresa abbastanza modeste, ma con la particolarità di resistere ad una caduta da 7 metri (almeno secondo il manuale di istruzioni) e di poter essere utilizzata sott’acqua. Anche qui, niente di particolarmente professionale, una fotocamera subacquea da snorkeling la definirei io.

Nikon AW 130

Fuori dall’acqua uno smartphone d’alta gamma ha una qualità di ripresa fotografica che probabilmente supera la Nikon AW 130 di diversi punti, ma dentro l’acqua, al di sotto della linea di superficie anche se hai l’i-phone 7 che è water resistant, di solito il cellulare non te lo porti dietro, almeno non deliberatamente.

Il fatto è che Carola è una fotografa e come tale ha sempre un suo particolare modo di vedere le cose. Per questo, quel giorno imprecisato dell’estate 2016, mentre tutti gli altri sguazzavano osservando ammirati flora e fauna, Carola nuota osservando la sua materia prima preferita: la luce.

Improvvisamente Carola si accorge che il Mare sta facendo qualcosa di molto simile a quello che essa stessa fa ogni volta che fotografa: dipinge con la luce!

Quest’immagine mi ricorda un po’ il romanzo Oceano Mare di Baricco. Ricordate il pittore che dipinge il mare con il mare? Ecco, nella testa di Carola deve essere comparsa proprio questa immagine perché decide di rituffarsi con al collo la Nikon AW 130, l’unico oggetto presente in barca in grado di catturare l’immagine del Mare che dipinge il Mare con la luce.

Collaborando al processo di produzione delle stampe abbiamo potuto vedere gli scatti grezzi. Credetemi sulla parola se vi dico che non sembravano scattati da una macchinetta amatoriale. Il primo impulso, infatti, era quello d’immaginare Carola con pinne e bombole che impugna a due mani una di quelle attrezzature super high-tech che si vedono nei documentari del National Geographic quando vanno ai tropici a riprendere gli squali e le mante. Era proprio un fatto di luce, una luce che di solito non trovi nelle istantanee amatoriali scattate da quel tipo di macchinette.

Ma il processo che porta alle opere in mostra non finisce con lo scatto. Una stampa fine art, come si chiama in gergo un’opera fotografica da esposizione museale, è infatti un oggetto ben più complesso. E’ per definizione un prodotto artistico, un prodotto il cui impatto non è limitato alla vista. Anche se nei musei vige l’illogica regola per cui le opere non possono essere toccate, una stampa fine art è spesso, prima di tutto, un oggetto che ha una sua connotazione tattile.

La carta destinata alle stampe fine art, che per standard devono durare almeno 100 anni, è una carta in cotone purissimo, senza acidi e con una trama superficiale che influenza l’aspetto dell’opera finale.

Quando un artista fotografo pensa alla sua opera esposta in una galleria previsualizza il risultato finale in tutte le sue connotazioni, immagina la finitura, lucida, satinata, opaca, grezza, levigata, con effetto tela, cotonosa, legnosa, setosa, …, immagina il tono del colore, caldo, freddo, naturale, virato, monocromatico, immagina i contrasti, immagina le alte luci, le ombre, il rapporto tra queste, e tante altre cose che solo un artista fotografo è solito immaginare o previsualizzare come diceva il Maestro Ansel Adams.

L’opera è la stampa finale, con tanto di cornice e montaggio, non la semplice immagine.

Una stampa fine art è un oggetto unico, è per questo che viene considerato un oggetto d’arte.

Il processo che porta alla stampa fine art è un processo altamente artigianale anche se vengono, come in questo caso, utilizzati strumenti digitali. E’ l’utilizzo manuale e personale di diversi strumenti e l’applicazione di tecniche personalissime in successione che consente all’artista di arrivare al suo risultato.

Ripetere in modo identico il processo che porta ad una stampa fine art di qualità è praticamente impossibile, in gioco ci sono troppi fattori: il lotto di produzione delle carte da stampa, degli inchiostri a pigmenti, temperatura e umidità, tempi di lavorazione, asciugature. Bisogna anche considerare l’umore dell’artista durante le specifiche fasi di lavoro, ogni semilavorato viene valutato e rilavorato se non sembra soddisfacente. In post produzione si utilizza Photoshop, certo, ma i vari controlli sono usati in modo analogico, non a caso sono la metafora di pennelli e altri strumenti tipici dei vecchi processi chimici. E’ la sensibilità del fotografo in quel momento che guidano il “ritocco”, un riflesso si può enfatizzare, attenuare, stemperare, armonizzare o portare in dissonanza con altri elementi. La fedeltà di riproduzione del reale qui non c’entra niente, è l’immagine mentale che ha nella testa che il fotografo cerca di far uscire.

Ma il fotografo sa che quello che vede sullo schermo di Photoshop non è la stessa cosa che risulterà sulla carta dopo la stampa, c’è di mezzo la stampante, gli inchiostri, quanti tipi di inchiostri usati come colori primari, il colore della carta, si fa presto a dire bianco, andate in un negozio di vernici a chiedere un bianco che non sia proprio il bianco bianco…

Quando un fotografo ha in testa una immagine deve scegliere la carta su cui stampare, deve guardare l’immagine sullo schermo, retroilluminata e innaturalmente brillante e immaginarla stampata, colore generato per addizione di luci emesse, colorate in tricromia, e colore generato da luci riflesse, in sottrazione di quattro o più colori.

La tecnologia non aiuta il fotografo, gli confonde le idee: RGB, YCMK, Gamut, Spazio Colore, “la foto importata non ha lo stesso profilo colore dello spazio di lavoro, che faccio lascio?”, provate ad usare Photoshop da profani e poi vedrete…

Qui per la cronaca Carola ha scelto una carta della Hahnemuhle, una cartiera artigianale tedesca che dal 1584 fornisce carte in cotone purissimo a pittori, tipografi e oggi anche agli stampatori digitali. Anche se non avete mai toccato un foglio di carta della Hahnemuhle, per avere un’idea della sua qualità, provate a cercare l’azienda su Google senza fare il copia incolla del nome e poi chiedetevi come ha fatto un’azienda il cui nome è così terribilmente anti-marketing a prosperare per quasi mezzo millennio!

Tra le diverse carte è stata scelta la PhotoRag Bright White, una carta strepitosa che  ha una trama talmente sottile e fine chepur avendo una finitura opaca può restituire colori brillanti come le migliori carte lucide, senza però i riflessi aggiunti. L’unica luce che sembra essere emanata è quella che scaturisce dall’immagine stessa, per non parlare dell’aspetto tattile.

Per far emergere tutta la qualità di cui è capace un foglio di carta che ha alle spalle 450 anni di maestri cartai non basta caricarla nella stampante e premere il tasto “stampa”. Devi dominare un processo che è un processo manuale, artigianale.

Devi scegliere gli inchiostri giusti e la giusta stampante che può caricare quel tipo di carta e usa quel tipo di inchiostri e poi mettere a punto i giusti profili, perché i profili standard preconfezionati che a volte sono forniti dai produttori, se li forniscono, non hanno personalità e se ce l’hanno non è la tua di personalità.

Dopo tutto questo sperimentare finalmente esce l’opera così come era nella testa dell’artista, un’opera che non è solo immagine ma coinvolge tutti i sensi suggerendo stimoli ed evocando sensazioni come è giusto che l’arte faccia.

Avere l’opportunità di seguire il processo che porta alla realizzazione dell’opera finale è un’esperienza istruttiva. E’ il modo migliore per comprendere che in questo tipo di processi non c’è serialità, non ci può essere riproduzione in serie. Ogni oggetto è unico e irripetibile.

Conta di più lo strumento o la mano del fotografo?

A questo punto è una domanda priva di senso. Conta solo l’espressività dell’artista e la sua capacità di utilizzare tanti strumenti diversi, più o meno potenti, più o meno facili da usare, più o meno precisi. Che sia uno scalpello, un pennello, un trapano elettrico o una macchina digitale a controllo numerico, il risultato finale sarà sempre il prodotto del personalissimo processo che l’artista inventa e raffina caso per caso con il solo e unico obiettivo di dare vita a l’opera che ha nella sua testa.

Le foto che troverete esposte a Campo de’ Fiori sono realizzate con un processo che utilizza solo strumenti digitali, alcuni di basso costo, altri più professionali e sofisticati, ma alla fine ciò che sbalordisce è l’essenza inerentemente analogica del prodotto finale che va ammirato e fruito attraverso l’emozione che solo l’arte è in grado di trasmettere e comunicare.

Se avete tempo, andate a vedere la mostra BLUE e verificate di persona!